“Sassi” (1960) è uno dei successi paradossalmente meno noti di Gino Paoli. Una sintesi perfetta del potere della parola e della sua ambiguità. Una struttura semplice, articolata su un’immagine netta e una dichiarativa affettiva | non ti ho saputo amare| non ti ho saputo dare.
I sassi, elementi duri e perenni, si consumano a contatto con l’elemento fluido e sfuggente che è l’intimità. I sassi sono parole di ogni giorno, le parole dell’amore consumato e ormai vuoto.
Ogni parola è stata detta mille volte, è stata ripetuta ed è ormai come dimenticata. La parola non contagia più, entra solo nel ritmo ciclico della risacca. Cosa rimane quindi del messaggio d’amore? Un suono perpetuo. Solo un’onda di ritmo sonoro che si assottiglia fino al non percepito.
Una struttura appartentemente semplice quella del testo di Paoli. Tessere lessicali omogenee, simmetriche. Passaggio rapido dalla forma attiva del verbo a quella passiva – diciamo|è stata detta- viviamo|vissuto- come una dichiarazione verbale della trasformazione da soggetto a oggetto. Da parola a sasso.
Una canzone preziosa perchè ci consegna la forma atavica di una preghiera. Quanto più forte perchè scarna, levigata, essenziale. Come un sasso che incontra il mare e si assotiglia. E perdura.
Sassi che il mare ha consumato
Sono le mie parole d’amore per te
Io non t’ho saputo amare
Non ti ho saputo dare quel che volevi da me
Ogni parola che ci diciamo è stata
Detta mille volte
Ogni attimo che noi viviamo è stato
Vissuto mille volte
Sassi che il mare ha consumato
Sono le mie parole d’amore per te
Sassi che il mare ha consumato
Sono le mie parole d’amore per te
Io non t’ho saputo amare
Non ti ho saputo dare quel che volevi da me
Ogni parola che ci diciamo è stata
Detta mille volte
Ogni attimo che noi viviamo è stato
Vissuto mille volte
Sassi che il mare ha consumato
Sono le mie parole d’amore per te
Sono le mie parole d’amore per te